Mia figlia e Bill

Gli occhiali scuri di mia figlia parlavano chiaro. Se ne stava lì, con la sua vecchia camicia da notte, i suoi ricci biondi spettinati e sporchi, la testa bassa mentre mi apriva la porta. La vidi immensamente fragile. In qualche modo ricordai quando da bambina non si classificò al livello statale di un concorso di scienze e pianse di rabbia tra le mie braccia. Nel vederla così, svegliandosi a mezzogiorno prendendosi il viso tra le mani, la sentii ancora una volta impotente, solo che questa volta non trovai le parole per consolarla. Chi avrebbe potuto trovarle!
«Un’altra volta?»
«Sì. Sai come fa quando beve.»
«È una canaglia.»
«Papà…»
«È quello che è.»
«Vuoi entrare?»
«Se vuoi. Mi farebbe piacere.»
«Entra.»

Entrai. Nella sala c’erano in ogni angolo sedie e tavoli ribaltati. Bill, quel disgraziato di mio genero, se n’era andato. Aveva lasciato dietro di sé la scia della sua ira. Gli occhiali di mia figlia e i suoi movimenti impacciati e innocenti non arrivavano a coprire il segno lasciato dal pugno. Mentre lei saliva nella sua stanza a sistemarsi, anche se inizio a credere che nulla potrà mai sistemare la sua situazione, ricordai quella volta in cui conobbi Bill. Non mi era mai piaciuto. La prima cosa che mi disse fu che lo avevano licenziato ingiustamente dalla fabbrica di auto dove lavorava. Che erano politiche della compagnia per discriminare gli americani e favorire gli immigrati. Per questo aveva deciso di andarsene da Seattle, viaggiare un po’, cercarsi un lavoro in paesi piccoli, allontanarsi dai liberali, tornare alla vita naturale, ma non aveva avuto fortuna.
Bill sembrava troppo impegnato a giustificare il suo licenziamento. Trascorse tutta la sera a parlare male dei colleghi di lavoro, dei suoi capi, gli autisti di autobus e gli ebrei. Non so perché non gli dissi che la mia famiglia era per metà ebrea, che mia figlia aveva quest’eredità. Parlò male perfino del nostro paese, “un inutile luogo di passaggio disperso in uno stato stupido come l’Oregon dove non rimaneva nessuno, solo pescatori di lago, i più rudi, dove era incredibile che vivessero trentamila persone senza nient’altro da fare che andare in giro puzzando di pesce”. Amo questo posto quasi quanto amo la mia famiglia, eppure non dissi nulla. Suppongo che lasciai correre, pensai che fosse la rabbia a farlo parlare così, che per questo beveva tanto. Dieci birre trasformano qualsiasi cena in un piccolo inferno. Pensai che stesse attraversando un brutto periodo, come succede a tutti. Che ne sapeva Bill. Che ne sapevo io. Mai avrei immaginato in quel momento che si sarebbero sposati due settimane dopo. Che bevevano tutti i giorni e, sicuramente durante una sbronza, Bill aveva convinto mia figlia a prestarle dei soldi. “Solo per qualche mese, finché non tornerà a lavorare. Un suo amico ha un piccolo magazzino di legna, lui gli darà un lavoro”, mi confessò lei.
Però non gli diedero quel lavoro, e nel giro di pochi mesi spesero i pochi risparmi che avevano. Dopo gli restava solo la casa, questa stessa casa, quella che mia moglie ed io avevamo lasciato a nostra figlia. E Bill continuò a dare la colpa ad altri. A lei, persino a me. E iniziò a colpirla. Mia figlia non l’ha mai riferito alla polizia. Arrivò fino al punto di mentire agli ufficiali dicendo che i segni sul braccio se li era procurati cadendo dalle scale. La mia parola non vale nulla senza la sua testimonianza. Non posso fare nulla per vie legali.
«Dov’è Bill?»
«Non lo so. È uscito.»
«Dov’è andato?»
«Non andrai a cercarlo, vero?»
«Perché non dovrei farlo?»
«Non è un buon momento. L’hanno rifiutato per un altro lavoro e ha ricominciato a bere.»
«Quando mai ha smesso di bere?»
«Papà, ti ho detto che possiamo gestire la cosa.»
«Non ci riuscirete.»
«Perché t’intrometti tanto nella mia vita!»
«Perché m’importa. Dov’è Bill?»
«Non lo so, papà. Non lo so mai!»
Quando mi disse queste parole mi venne voglia di colpirla io stesso, o di colpirmi da solo. Di colpire. Per non avere le risposte. Mia figlia non è stupida. È solo innamorata di un idiota. Che ne sa lei. Non ho niente da dirle. Ho provato di tutto ormai. Avevo trovato un lavoro a Bill alla fermata degli autobus. Era un lavoro a prova di stupidi, l’unica cosa che doveva fare era contare i passeggeri di ogni bus e chieder loro i biglietti per portarli poi a un ufficio in modo che l’amministratore li archiviasse. Solo Bill poteva ingegnarsi per rovinare tutto: arrivava ubriaco, perdeva i biglietti e litigava spesso con i passeggeri. Finché non lo licenziarono quando colpì in faccia un latino che, secondo Bill, non parlava inglese ma gli aveva mancato di rispetto. Quella sera dovetti farlo uscire di prigione, e commisi l’errore di lasciarlo a casa con mia figlia. Non so da dove avrà tirato dell’alcol, ma si ubriacò e le ruppe il braccio.
Fu in quel momento che per la prima volta desiderai uccidere Bill. Non mi credo capace di uccidere nessuno però si che ho pensato di darle di santa ragione a Bill più volte di quante ne possa ricordare. Mia figlia mi convinse a non farlo. Mi convince sempre. Non posso dirle di no quando piange, non ci sono mai riuscito. Volli aiutarli un’altra volta, compresi che eravamo tutti parte del problema. Andammo a fare terapia famigliare al centro comunitario. Li accompagnai perfino agli Alcolisti Anonimi, portandoli addirittura ogni giorno alla riunione del gruppo perché non potessero mancare. Però s’ingegnavano per nascondersi, per scappare. Sparivano per due o tre giorni. Non seppi mai dove andassero. Mia figlia non me lo dirà mai. Mi fa ribrezzo l’immagine di loro due nel bosco, lontani dal sentiero, nascosti come animali, bevendo in un albero, orinando alle intemperie, con il riflesso della Luna nel lago illuminando la faccia ributtante di Bill, il suo naso piatto schiacciato per via delle tante liti, i suoi capelli unti, il suo alito alcolico ogni volta che insulta mia figlia, me, questo paese, lo stato.
«Vuoi dei pancakes papà?»
«Ti metti a cucinare?»
«Sì. Se vuoi, è chiaro.»
«Piccola, lo farò io. Ne hai passate tante ieri.»
«Grazie.»
«Hai del miele?»
«Nella dispensa, secondo cassetto.»
Mi misi a preparare i pancakes. Mia figlia si sedette al tavolo della sala da pranzo, sistemando la tovaglia sudicia. Accavallò le gambe e si accese una sigaretta, poi si rese conto che non aveva il portacenere, chissà dove sarà, e usò un bicchiere con della soda per metterci la cenere. Aprii il frigorifero per cercare delle uova e scoprii che non c’era elettricità. Non valeva la pena dirglielo, lei lo sapeva già. Fortunatamente le uova non erano andate a male, e iniziai a cucinare. Mia figlia chinò la testa verso il petto, nella sua mano la sigaretta che si consumava lentamente. Pensai a una poesia di Raymond Carver, di quelle che non ci insegnano a scuola ma che metà della popolazione conosce, che parla di un portacenere. Dice che tutte le storie si svolgono intorno a un portacenere, un uomo e una donna come suoi poli opposti: parlano, si muovono, rimangono in silenzio, e alla fine qualcosa succede o non succede tra loro. Solo che nemmeno c’era un portacenere in casa.
«Tesoro, i tuoi pancakes sono pronti.»
«Grazie, papà» rispose con la sigaretta che ormai le bruciava le dita. La lasciò cadere a terra.
«C’era poco miele, quindi ho usato più zucchero per la massa.»
«Sono buoni. Se li fai tu sono buoni.»
Mangiammo senza parlare. Fatta eccezione per Bill e mia figlia è un vicinato molto tranquillo, e non c’era un maledetto rumore nella via, salvo il canto disordinato degli uccelli, che riempirono un po’ il silenzio e mi portarono tranquillità. Lei tagliava e masticava piano, i bocconi piccoli. Io smisi di mangiare dopo dieci minuti. Poi mi persi, non so per quanto tempo rimanemmo in silenzio seduti al tavolo. Pensai a Bill, che magari fosse apparso per casa per potergli dare un bel colpo. Una volta successe qualcosa di simile ma fu più drammatico. Fu qualche mese fa, mia figlia stava piangendo, mi disse che era così da diversi giorni, e Bill entrò dalla porta dando un calcio, barcollando, insultando il suo ex capo, poi insultando lei. Non si rese conto che io ero in casa. Sono sicuro che l’avrebbe picchiata, mi misi di fronte a lui e con una spinta lo feci cadere. Il codardo stava morendo di paura, io gli gridavo di alzarsi mentre cercavo un coltello. Bill supplicava. Mia figlia svenne. Andai a tirarla su, la lasciai nella sua stanza. Quando me ne accorsi, il disgraziato se n’era andato. Non so cosa sarebbe successo se lei non fosse svenuta. Nonostante questo, non mi credo capace di uccidere nessuno.
«Sei andato a trovare la mamma? -mi chiese quando finì l’ultimo boccone, mentre si accedeva un’altra sigaretta e si dondolava abbracciandosi le ginocchia, come una bambina piccola.»
«Sì. Ci sono andato la settimana scorsa, le ho portato qualche giglio, che le piacevano molto.»
«Io non sono riuscita ad andarci. O meglio, stavamo per andarci oggi con Bill, ma…»
«Capisco.»
«Non è che non voglia andarci. Mi manca molto.»
«Lo so.»
«È che mi manca davvero. Sento che ogni cosa nella mia vita è andata al diavolo quando lei se n’è andata. Non lo credi anche tu?»
«Adesso non so cosa pensare.»
«Lei si prendeva cura di noi, non è vero? Si preoccupava sempre che tutto fosse in ordine, che stessimo bene. Ricordo che la sera prima di dormire mi chiedeva com’era andata la mia giornata. Quando ero adolescente la cosa m’infastidiva, invece adesso mi manca molto. Ne ho bisogno.»
«Tua madre era una grande donna.»
«Sì, lo era davvero. Credi che si prenda ancora cura di noi?»
«Certo. Come potrebbe smettere di farlo?»
Provai gelosia verso mia moglie. Le parole di mia figlia mi facevano sentire inutile, come se io non contassi nulla nella sua vita. E forse è così. Sua madre morì molti anni prima che lei conoscesse Bill e mi chiedo se con lei al nostro fianco le cose sarebbero andate diversamente. Non vale la pena pensarci, lo so, ma ogni tanto questi pensieri mi perseguitano.
Poco dopo cominciammo a parlare di sciocchezze, del clima che quest’anno era eccellente, e dell’inizio della stagione di pesca. Non una parola in più su Bill. Quando scese la sera, dato che non c’era elettricità e non potevamo guardare la televisione, mi chiese di raccontarle una storia. Mi piace raccontare storie di altre persone, mai le mie, così le ricordai quel pomeriggio in cui andammo alla fiera della contea con sua madre, e lei si perse. Anche se la fiera è un posto tranquillo, non si sa mai cosa possa succedere. Mai. Girammo intorno alla giostra, il suo gioco preferito, chiedemmo agli amici e ai vicini e, ansiosi, restammo per qualche minuto davanti al carretto dello zucchero filato che tanto le piaceva, e niente. Ci separammo per cercarla, ebbi paura di perdere anche sua madre, però la lasciai andare, guardando sempre indietro. Dopo una mezz’ora le trovai: “Amore, era nell’auto ad aspettarci, con il peluche della scimmia che ha vinto al lancio degli anelli”, disse mia moglie con un gran sorriso. Vedendole così, quasi mi misi a piangere per la felicità.
La storia piacque molto a mia figlia, si tranquillizzò, tanto che si rannicchiò nella poltrona della sala quando terminai. Si tolse gli occhiali: il livido era enorme. Riuscii a vedere, o lo immaginai, un piccolo coagulo nell’occhio. Lei sorrideva. “Andrà tutto bene papà, vedrai”, mi disse. Poi mi raccontò alcune cose sulla casa, alle quali non feci attenzione. Decisi di restare, nel caso che quel disgraziato di Bill tornasse. Ricordai di nuovo l’episodio della fiera della contea, lo raccontai un’altra volta, a voce bassa, per me stesso. Finché non mi addormentai, con i vestiti addosso, al tavolo della sala da pranzo.
Mi svegliai inquieto, di sicuro avevo avuto un incubo. Non riesco a ricordarlo, ed è meglio così. Anche se ancora non è estate e il clima è abbastanza fresco, credo che uscirò nel portico di casa a guardare la luna. Ho sempre creduto che fosse la cosa più bella del nostro paese. Molte delle poesie che scrisse Carver le ispirò questa luna. La bandiera dello stato dell’Oregon dovrebbe essere una Luna su un lago. Carver. Lo leggo da quando ero piccolo, ma da quando mia figlia sta con Bill lo sento troppo vicino. Il fallimento delle piccole vite. Capisco che lei non riuscirà a uscire da sola da questa relazione, che lo ama e questo la fa diventare stupida fino al punto di prendere botte, e che io sono assolutamente incapace di fare qualcosa.
Abbiamo dormito molto. Anche se la Luna è ancora brillante, il cielo è già celeste. Presto sarà giorno. Corre una brezza. Nel portico mi accoglie la strada vuota, solo due ragazzi camminano, avranno undici o dodici anni. I bambini possono ancora camminare per questo paese senza il timore che appaia un depravato. Forse un imbecille come Bill può essere il loro unico problema. A loro non importa. Ognuno porta un fascio di giornali, li lasciano di casa in casa. Il loro passo è atletico, giovanile. Non parlano tra loro, ma se potessero andare abbracciati, sicuramente lo farebbero. I loro volti sono tranquilli. Ora lo capisco. Sono felici. A quest’ora, con la luna che ancora illumina la via, non c’è spazio per la morte, l’ambizione, neanche l’amore. Felicità. Mi sveglierò ogni mattina un po’ prima.

(Pubblicato originariamente qui)

traduzione di Francesca Miola