Lontano

Di cambiare casa non se ne parla. In paese ha tutto quello che serve, i vecchi amici, la famiglia. Ecco cos’avrebbe detto prima dell’incidente.
Pieno giorno, strada libera, asfalto pulito, una lieve curva. La sua memoria finisce un attimo prima. In quell’attimo sua moglie dice al figlio più piccolo che non deve calciare i sedili. Non si fa, ripete la sorella. L’attimo dopo il vuoto. Molti attimi dopo si sveglia in ospedale, ma non ha niente. Incredibile, dicono i dottori, lui è rimasto illeso e loro sono morti.
Eppure era sobrio e la velocità nei limiti. Una distrazione del guidatore, scrivono i periti. In casa è rimasto il cane; aspetta che arrivino anche gli altri, uggiola, guarda il padrone, l’unico che è rimasto. E dire che non lo voleva. Erano stati i suoi figli a insistere. Era stata sua moglie a convincerlo.

Nessuna telefonata di condoglianze. Al funerale tutti presenti, ma pochi lo avvicinano e gli dicono mi dispiace. I più partecipano e se ne vanno. E prima di andarsene lo guardano, anche dopo, per strada, al lavoro, sanno tutti chi è, sanno tutti cos’ha fatto. Una lieve curva. Non puoi tirare dritto per sbaglio.
La casa è l’unico riparo, ma è troppo simile a prima. Troppo grande per quelli che rimangono. Non gli interessa dove andare, purché sia lontano. Con sé porta solo il necessario e il cane. Molla anche il lavoro; ne troverà un altro, altrimenti inventerà qualcosa.
La nuova casa è tutta su un piano, giusto tre stanze e una rimessa per gli attrezzi. Non ci vive nessuno da anni. Dall’incrocio sono tre chilometri di asfalto dissestato, altri due di sterrata, la strada finisce davanti alla porta. Con la casa ha comprato un pezzo di terra per coltivare l’orto.
Telefonate non ne riceve; non l’ha detto a nessuno che andava via. Il cane si abitua in fretta, è contento di avere tanto spazio a disposizione. Anche lui è contento di avere un cane.
Qui non lo conoscono, ma non fanno domande. Lo accettano, forse lo sopportano e basta. In paese ci va quando serve. C’è un bar, ma non è mai entrato. Sa che c’è una donna per gli uomini soli, lo sa perché ne ha sentito parlare, ma lui non si sente solo. Si sente libero.
Nelle vicinanze non abita nessuno, i campi sono incolti, i boschi un groviglio di rami. Gli animali selvatici lasciano tracce e odori, ma scappano prima di essere visti. Solo una volta capita un’automobile, sente il rumore del motore, la manovra e quando si affaccia alla finestra scorge una nuvola di polvere che scompare su per la salita. Il segnale di strada chiusa è caduto; il giorno dopo lo raddrizza. Ora non sbaglieranno più.
Le giornate passano lente, ma trova sempre qualcosa da fare: sostituire le tegole rotte, livellare la terra del cortile, curare gli ortaggi, potare i rami degli alberi, tinteggiare la facciata esterna, passeggiare col cane. Non sente il bisogno di una compagnia umana né di una voce al telefono, se anche ne avesse bisogno dovrebbe spostarsi di qualche chilometro perché lì non c’è campo.
Un giorno fa la spesa in paese, il pieno alla macchina, poi passa dal meccanico per una controllata. Tutto bene, dice quello. Mentre torna a casa è già buio, le giornate si sono accorciate di colpo e c’è la nebbia. Quando vede l’albero riesce a frenare appena in tempo. Scende dall’auto; il tronco attraversa la strada, impossibile passare. Prova a spostarlo, ma è troppo pesante, allora prosegue a piedi.
Era secco, ma oggi non ha tirato un filo di vento e non ha piovuto. Eppure all’andata è sicuro di averlo sentito scricchiolare. Il cane gli corre incontro come sempre, ma sembra strano pure a lui che il padrone torni così, però è contento, l’importante è che sia tornato.
Rimosso l’ostacolo controlla che non ci siano altre piante pericolanti. Farebbe meglio a sostituire l’utilitaria con un fuoristrada, ma prima dovrebbe assicurarsi un’entrata regolare. A trovarla non s’impegna, non ha fretta, non ha voglia di tornare alla vita di prima, di vedere tutti i giorni altre persone. Le preoccupazioni, però, sono altre: la lapide, i fiori sciupati, tutto il resto.
Il cane ha smaltito i chili in eccesso, saranno le corse, il cibo razionato, l’aria pulita, sarà la presenza del padrone. Ecco, ora ha trovato un leprotto e l’ha inseguito finché ha potuto, poi è tornato con la lingua penzoloni, felice e perdente.
Anche lui ha perso peso, sente i muscoli che si tendono, guarda le mani ruvide e non gli sembrano le sue, allo specchio si riconosce, ma sa pure che è cambiato. Parla con il cane, giusto qualche frase, monosillabi, si accorge che la voce è diversa, non sa dire diversa come.
Da quelle zolle di terra dura sbucano i ciuffi delle carote, si aprono le prime foglie d’insalata, prendono colore i pomodori, fioriscono le zucche. Il cane rimane fuori dal quadrilatero coltivato, osserva la spola dell’innaffiatoio, i movimenti cadenzati della zappa, le mani che strappano l’erba cattiva.
Lui compra altri semi, si procura gli attrezzi necessari, non chiede consigli, non avrebbe nessuno cui chiederli. Vuole fare da sé, il perché non lo sa, ma la sera è soddisfatto quando è stanco. Soddisfatto, non contento, che sarebbe troppo, saprebbe di non meritarselo.
Oggi esce perché ha visto qualche foglia mangiucchiata. Colpa delle lumache, lo sa, le ha sentite. Eppure non possono essere state loro ad aver strappato le foglie, staccato i gambi, rovesciato la terra. Forse le talpe, ma non ci sono buchi. Ecco, è senz’altro colpa dei cinghiali. Cerca le impronte, ma non le trova. Se è stato un animale non ha mangiato nulla. Non ha fatto rumore oppure lui non l’ha sentito e neanche il cane. Potrebbero rifarlo, in una notte rovinare l’attesa e il lavoro di mesi, allora salva il salvabile, rimette in ordine, il resto lo abbandona.
Da lì a poco comincia a piovere spesso e le condizioni della strada peggiorano. Prima bastava schivare le buche, ora bisogna scegliere quelle più piccole, procedere a passo d’uomo, arrischiarsi oltre il bordo. E l’acqua scava solchi sempre più profondi.
Potrebbe chiedere aiuto in paese, ma non conosce nessuno. Quando parla con loro sono gentili, ma appena si volta li sente bisbigliare, allora smette di andarci.
Fa lunghe camminate nel bosco. Sentieri non ce ne sono, ma impara a orientarsi, a distinguere le bacche e i funghi velenosi. Il cane lo accompagna dappertutto, quando scompare dalla vista basta un fischio e in pochi secondi è da lui.
Una sera sente uno sparo. Ascolta: nessun animale in fuga né un cacciatore che si avvicini alla preda, eppure sembrava vicino. Aspetta ancora, poi chiama il cane, ma non arriva. Inizia a cercarlo, alza la voce, quando scende il buio è costretto a rincasare. Lo trova davanti alla porta, a coda bassa. Per la prima volta lo porta dentro, al sicuro.
I giorni seguenti non esce; la pioggia non smette un istante. Poi il cielo si rasserena ed è di nuovo fuori. Il cane lo accompagna fino al margine del bosco, ma da lì non si sposta. Non l’ha mai sentito lamentarsi così, allora lo lascia indietro. Oggi la raccolta è stata buona, tutta quell’acqua è servita a qualcosa, domani tornerà con uno zaino più grande.
Quando esce dalla vegetazione cerca il cane per festeggiare. Lo cerca dietro casa, ma non lo trova, non subito. Deve alzare lo sguardo per vederlo. Hanno scelto il ramo più grosso e una corda che teneva nella rimessa; il vento lo fa dondolare a due metri da terra.
Lo seppellisce lì vicino e sopra il cumulo mette una croce senza nome. Il raccolto lo tiene, ma nel bosco non ci torna. Ora si sveglia più tardi, ma tiene gli occhi chiusi, poi li apre, ma non si muove. Non ha fretta, ha tutta la giornata davanti, solo non sa come impegnarla.
Riordina, pulisce, ripara, poi guarda fuori, ma non c’è nulla che non abbia già visto. Potrebbe uscire, ma non saprebbe dove andare, gli sembrerebbe inutile. Anche stare in casa gli sembra inutile. Conta il tempo perso, poi smette. Ripensa alla curva, al guardrail che non ha retto, alla scarpata, all’auto sfasciata, vede l’incidente da fuori, si avvicina alla carcassa, si sporge dal finestrino rotto. Guarda dentro.
Ogni mattina controlla la cassetta della posta, sa che non c’è niente, ma si accontenta di tastare nel vuoto. I soldi, anche con la vita che fa, sono sempre meno. Non lo preoccupa il momento in cui sarà senza, ma tutto il tempo che manca per arrivarci.
Una mattina si sveglia, guarda dalla finestra e vede che sta nevicando. Ora dovrà liberare la macchina e pulire la strada. I giorni successivi li passa a spalare, non smette di venire giù e ogni mattina deve ricominciare daccapo, ma spera che vada avanti tutto l’inverno. Invece finisce, si alza la temperatura, la neve si scioglie.
Per rifornirsi si sposta nel paese più lontano. Quando scende dall’auto smettono di chiacchierare e rimangono a guardarlo. Prende il necessario e se ne va; la prossima volta andrà più lontano ancora.
Ora fa più freddo, troppo freddo per nevicare, nonostante il riscaldamento fa freddo anche in casa. Sulla strada non ci sono più buche, solo lastre di ghiaccio. A fare la salita non ci prova nemmeno; nell’attesa razionerà il cibo.
Dalla finestra cerca il muso di un animale, ma sembrano tutti in letargo. Ci andrebbe anche lui, in letargo, invece fatica a prendere sonno. La notte si sdraia, ma dopo poco si alza e gira per le stanze, poi torna a letto e chiude gli occhi. Cerca il filo di un pensiero, lo segue, arrivato dall’altra parte lo abbandona. La sua testa è vuota quando sente l’urlo, ma prima si rompe il vetro e solo quando rimbalza per terra si accorge del sasso.
Guarda fuori, ma non c’è niente. Si butta addosso qualcosa, accende una torcia, esce, resta in ascolto; tutto come al solito. Forse è stato lui, a urlare.
Sposta il materasso nell’altra stanza e chiude la porta a chiave. In terra c’è più freddo, allora aggiunge una coperta e sotto il materasso infila il coltello più grosso che ha. Spera che la mattina arrivi presto. Lo spera tutta la notte.
Il giorno dopo si accorge che nevica ancora. Inchioda qualche asse agli stipiti, ma il materasso lo lascia dov’è e il coltello lo tiene addosso. Anche quando il cibo finisce aspetta che il ghiaccio si sciolga. Una volta sciolto ha un’altra paura: che l’auto non si accenda. Invece parte al primo giro di chiave. Lascia la frizione e preme l’acceleratore, troppo in fretta, la macchina fa qualche metro, singhiozza, si spegne. Non c’è modo di riavviarla.
Il resto della giornata lo passa a guardarsi attorno, a fare supposizioni. Fosse in loro la farebbe finita adesso, finché lui è bloccato. Fosse in loro aspetterebbe la notte. Aspetterebbe che lui si addormenti.
Quando arriva il buio torna dentro, si siede in mezzo alla stanza, il coltello in mano, gli occhi sulla soglia. Le ore passano e quando gli fa male una mano prende il coltello con l’altra. Dopo un po’ gli fanno male tutt’e due, fa per appoggiarlo e a quel punto le sente. È un attimo, allora si chiede se erano davvero grida.
Non fa in tempo ad alzarsi che tornano più forti, sono dietro la porta, tiene d’occhio la maniglia, ma quella non gira, eppure le grida si avvicinano, può distinguerle, quella della donna e quelle dei bambini.
E quando entrano, ora che gli sono addosso, capisce che c’è un solo modo. Colpisce una volta, un’altra, ancora. Finché ne ha le forze. Finché non sente più niente.