Lo Sciame

Il cielo azzurro era appiccicato ai vetri della finestra, Luca giocava in camera aspettando di andare al parco, e Andrea era seduto accanto a me in cucina.
«Quante settimane ci sono ad agosto quest’anno? Devo comunicare il piano ferie al capo»
«Non lo so – gli ho detto, alzandomi con i piatti in mano – quattro, forse»
«Potrebbe averne cinque, aspetta, controllo», e ha staccato dal muro il calendario della scuola materna, quello che ti dice cosa mangiano i bambini ogni giorno, così poi tu sai cosa cucinare a cena.
«Ma dove cazzo è agosto? Ma come cazzo è possibile che non ci sia agosto in questo calendario?», e l’ha lanciato sul tavolo.
Ho infilato le mani nei guanti di gomma rosa.
«Andrea. È un calendario scolastico. Ad agosto non si va a scuola».
E ho pensato “coglione”.

Ho preso lo Svelto e la spugnetta e ho cominciato a lavare.
Lui è uscito dalla cucina, è andato a sdraiarsi sul divano e ha acceso la tv. C’era il Gran Premio.
Sono andata di là con il telefonino in mano e gli ho detto «Avevi ragione tu. Ne ha cinque quest’anno. Puoi abbassare un po’ il volume?»
«Ok. Grazie. Credi che il budino si possa già mangiare?» mi ha risposto senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Boh, credo di sì, prova»
«Me lo porteresti?»
«Alzati e prenditelo»
Si è alzato e mi ha raggiunta nel corridoio. Mi ha bloccata, mi ha dato un bacio sul collo e poi è andato verso il frigorifero.
«Mai che mi vizi un pochino, eh»
Non è che non ho voluto rispondere. È che non riuscivo a parlare con quel rumore di macchine che giravano in tondo. Sembrava uno sciame enorme di api incazzate.
Come quando ero bambina, e la tv era una sola, e la domenica non c’era possibilità di scelta. O il Gran Premio o Domenica In. Mia madre restava in cucina, mio padre si sedeva sulla poltrona, io sul divano, e poco a poco mi lasciavo morire dal sonno.
D’estate mi risvegliavo che ero un tutt’uno con la pelle marrone del divano, sudata e appiccicata. E avevo sempre la nausea. 
Ci sono due rumori che mi fanno venire la nausea: quello delle macchine che girano in pista, e il rumore della radiocronaca che ascoltavamo nell’Alfetta andando in montagna, quando facevo fermare mio padre e scendevo per vomitare.
Sono andata in bagno, ho alzato l’asse e sono rimasta lì, appoggiata, a guardare il fondo del cesso.
Solo i cessi nuovissimi sono perfettamente bianchi. Quelli vecchi di qualche anno, per quanto ti sforzi, non vengono mai puliti. Rimane sempre un alone di calcare.
O forse sono io che non ho mai usato i prodotti giusti.
«Bisognerebbe portare Luca fuori, c’è un sole splendido, non può restare tutto il giorno a casa»
«Quando finisce il Gran Premio lo portiamo. Facciamo due passi»
«Al parco. Ho detto al parco. Non due passi, come i vecchi. Al parco»
Ho raccolto la ciotola vuota del budino, «Era buono?» gli ho chiesto.
«Sì, ancora un po’ molle però»
«Dovevi aspettare» ho detto entrando in cucina, e non mi ha sentita.
Ho preso il calendario della scuola e l’ho riappeso dov’era. Lunedì a pranzo bocconcini di vitello, ho letto, e ho scritto sulla lavagna magnetica “comprare ricotta”.
Sono andata in camera, mi sono sdraiata sul letto e ho chiuso gli occhi. Ma le orecchie non riuscivo a chiuderle, e c’erano le api.
«Mamma, quando usciamo?»
Non era passato nemmeno un minuto.
«Vai a chiederlo a Papà, ti porta fuori lui»
«Tu non vieni?»
«No, amore, magari vi raggiungo dopo. Ho mal di testa»
Ho sentito i suoi piccoli passi nel corridoio, e ho pensato che è strano: quando cominciano a camminare hanno i passi pesantissimi, e poi, vivendo, imparano a farsi leggeri.
Poi mi sono addormentata. Nonostante lo sciame di api, nonostante la nausea, nonostante il mal di testa.
Andrea e Luca sono usciti senza fare rumore, hanno portato fuori anche la bicicletta, e sono tornati poco prima di cena. Io ancora dormivo.
Mi sono sentita baciare da un paio di labbra che non mi sembrava di conoscere.
«Dovevi essere stanchissima».
Ci ho messo tutta la forza che avevo per aprire gli occhi. E ho subito sentito quel profumo di pelle maschile accaldata che avevo adorato fino a qualche giorno prima.
E, di nuovo, una fitta di nausea nello stomaco.
È stato in quel momento che l’ho capito. Perché uno si aspetta tutta la vita che la fine di un amore arrivi a piccoli passi, e faccia come nelle fiabe: lasci tracce, pezzi di pane e anche qualche biglietto.
E invece no. A casa mia la fine dell’amore è arrivata all’improvviso, una domenica di maggio.
«Credo di essere malata»
«Vado a preparare una pasta»
«No, lascia stare, fa lo stesso, mi alzo»
Lo sciame non c’era più: la sensazione di dover vomitare da un momento all’altro sì.
Ci siamo seduti tutti insieme attorno al tavolo, il cielo era diventato rosa, si era staccato.
Luca aveva le guance accese e fili d’erba tra i capelli.
«Dove sei andato a finire con quella testa?»
«Papà mi ha insegnato a fare le capriole!»
Ho alzato gli occhi e l’ho visto, mentre guardava suo figlio, soddisfatto e felice. Non avevo mai notato che facesse così rumore masticando la pasta.