Balbetto invitandola a entrare, sto quasi per commettere un errore chiedendole di togliersi i lunghi guanti neri che indossa. Si intonano all’abito da sera che ha scelto per l’occasione: una soleggiata mattina d’estate. Tengo a bada la collera deglutendo una quantità anormale di saliva. Sto diventando un animale, un cane, credo. Mentre la bacio penso che è doloroso stringere le fauci in questo modo. Poi mi correggo: la mascella, ho ancora una mascella.
Il bacio doveva finire sulla sua guancia, ma lei gira il collo e le nostre labbra si incontrano. Non mi tiro indietro, ma le tengo chiuse. Inalo il suo profumo che mi dilata le narici, scende lungo la gola con il potere disinfettante di una mentina. Per un attimo ricordo che una volta amavo questa donna. Il minimo tocco della sua pelle – il minimo tocco delle sue dita, penso e rabbrividisco – mi faceva impazzire. Ma adesso la sua lingua cerca di rompere le mie barriere, un brivido percorre il mio corpo. Non è desiderio, ma paura.
Come siamo finiti qui? È una domanda assurda. Lasciando stare le particolarità della nostra situazione, si tratta di un mistero universale. Perché l’amore finisce? Una canzone pop. Chiudo gli occhi e provo a rilassarmi, immagino di essere altrove, con un’altra donna. Aggrappati alle sensazioni, mi dico. Aggrappati all’umidità delle sue labbra sul lobo del tuo orecchio, il suo respiro che ti solletica. La pressione del suo seno contro le tue ossa. Smettila di tremare, idiota, e aiutala a toglierti i pantaloni. È invalida.
Non riesco a visualizzare nessun viso, nessuno corpo se non quello che sto sentendo. Ma riesco a vederla com’era una volta, il giorno in cui l’ho conosciuta. Era ancora un’adolescente, stava seduta sui gradini sotto alla statua della vergine, a Portugalete. Indossava un vestito tradizionale con un tocco postmoderno: una gonna blu sopra dei pantaloni di pizzo alla zuava, uno striminzito top bianco aderente, tacchi alti. Non era la sola. In occasione della festa cittadina, tutte le adolescenti adattavano lo stile dei loro antenati all’estetica del ventunesimo secolo. Uniformate, identiche, guardarle in schiera mi stordì. Più tardi, quando la leccai tutta, non sapeva di sudore, ma di mare. Probabilmente fu un’impressione derivata dalle reminescenze evocate dal suo costume e dal luogo, ma nonostante tutto sembra romantico.
Rispondo alle sue carezze. Vorrei mostrare una certa resistenza, ma non è così facile: mi conosce. Non ho più addosso la camicia e i pantaloni sono attorno alle caviglie. Tocca la mia erezione e mi chiedo come sarebbe sentirla senza quella stoffa di mezzo, mi chiedo se prima o poi si toglierà quei guanti.
Anche se non voglio ancora aprire gli occhi, me la immagino in ginocchio davanti a me. Prende il mio cazzo e lo lecca dal basso verso l’alto lentamente, molto lentamente. Non riesco a crederci, ma in un attimo ho dimenticato tutto: i litigi, le botte, le grida e il silenzio finale, era una trappola, ma non lo sapevo ancora. Non potevo saperlo. L’immaginazione ha i suoi limiti, altrimenti non è immaginazione, ma follia.
Si toglie i capelli dal viso e li raccoglie in una coda. Senza aiutarsi con le mani, senza avviso, mi divora. Le sue labbra toccano il mio pube. Lei resta lì. Ringhio e apro gli occhi per questo piacere voyeuristico. La paura torna immediatamente, un pensiero specifico: lei mi sta per mordere. Chiuderà le sue fauci e prenderà il mio cazzo come in una trappola veloce ed efficiente. Riesco a vedere la scena: lei si alza lentamente, il mio lembo tra i suoi denti, lei mi guarda con orgoglio come un gatto che ha appena cacciato. Il malessere che sento è terribile e tutto scende giù: la mia erezione, il mio umore, e anche qualche lacrima. Attraversano le mie guance come la saliva che scende sul mio inguine.
«Cosa c’è che non va, amore mio?» Ancora inginocchiata mi guarda con l’espressione beata che hanno le donne quando guardano il cielo. Mi accovaccio anch’io – per essere più preciso mi sgretolo, scivolo lungo la parete come una macchia di unto – e seppellisco la mia testa tra i suoi seni. «Voglio vederle… Voglio vedere le tue mani» piagnucolo. «Sei sicuro?» Lei mi allontana e fa in modo che la guardi negli occhi, sono così blu da far paura. Sembra una spia aliena arrivata sulla terra.
«Va tutto bene. Ma per piacere non fare una scenata.» Si toglie lentamente il guanto sinistro. La stoffa scopre il suo avambraccio, il tatuaggio di Sylvia Plath, il suo polso sottile, le vene blu; cade a terra e io non respiro. «Cosa ne pensi?» La sua mano è sulle mie ginocchia. Guardo attentamente i tagli sul suo indice e mignolo, all’altezza della terza falange. La superficie delle sue dita ricorda delle bruciature di sigaretta. La pelle ha cominciato a ricoprire i lati dell’osso, ma il centro è ancora nudo. È un segmento irregolare con delle macchie bianche, come cenere. «È terribile» mugugno, e poi all’improvviso sto piangendo di nuovo.
Penso che i suoi arti siano il luogo del trauma.
Il luogo del mio trauma è questa stanza, alcuni mesi fa.
La nostra storia è il modo in cui il mio trauma e il suo trauma si sono uniti, diventando per sempre collegati.
Salto su di lei, non era pronta per il peso del mio corpo. Urla per la sorpresa e sbatte la testa a terra. Non riesco a misurare la mia forza mentre strappo i bottoni che tengono il vestito stretto attorno al suo collo. C’è anche una cerniera, ma non mi preoccupo di aprirla. Allento lo scollo per liberare il suo seno e tiro su la gonna. L’orlo le arriva sul viso, sembra una piccola campana. Sposto le sue mutandine e entro dentro di lei. Uno, due, tre, quattro spinte che la lacerano e ho fatto. Mi sbriciolo sul suo corpo, so che il mio torace la sta soffocando, ma rimango lì per qualche secondo. Non ero mai venuto così velocemente, non con lei.
Mi pettina i capelli con la mano sana. «Andrà tutto bene» sussurra. «Tutte le coppie hanno degli alti e bassi.» La guardo, guardo la sua espressione e vedo il delirio. È una pazza che ha trovato la pace. È una fondamentalista. Mi viene in mente la parola kamikaze, in qualche modo è più appropriato di suicida. Forse perché suicida è un termine più comune e la nostra situazione non ha nulla di ordinario. Me ne accorgo ancora, ma so che il suo scopo finale è farmi perdere ogni cognizione. Vuole che stia al suo gioco, che pensi alla malattia come una cosa naturale. Ma le ci vorrà del tempo, il tempo che serve alla mia memoria per offuscare i dettagli.
Dettagli come questo: il primo pacco che ho ricevuto era rosa, incartato con carta natalizia. All’interno: due unghie lunghe e smaltate. Brandelli di carne attaccati alla cuticola. E un messaggio scritto a mano: lasciami andare a casa.
Siamo ancora a terra, sdraiati a pancia in su. Vorrei fumare una sigaretta, così potrei fare qualcosa con le mie mani, ma è domenica e i negozi sono chiusi. Mi avvicino alle sue gambe e lei trema. Accarezzo l’interno delle sue cosce e mi avvicino al suo inguine, umido e scivoloso. Mi chiedo se sia difficile per lei masturbarsi ora che ha otto dita al posto di dieci. Rabbrividisco come se avessi freddo.
Lo so. So che arriverà un momento in cui riuscirò a ricordare ciò che ha fatto senza sentirmi male. Sapere tutti i dettagli sarebbe d’aiuto. Perché ha scelto le mani e non i piedi. Perché non i denti. Un orecchio? Vorrei vedere le pinze che ha usato per farsi quei tagli. Per spingersi al limite. Raccontarmi del dolore. Di cosa sa. Ho vomitato una poltiglia di fagioli dopo aver aperto la seconda scatola, proprio nel punto in cui siamo sdraiati adesso. Il suo respiro accelera e io accelero i miei movimenti di conseguenza. Penso all’amore, quella strana convenzione che ho completamente cessato di comprendere. È come un pot-pourri di patologie: mania, ossessione, dosi chimiche sbagliate, atteggiamenti autodistruttivi, dissoluzione dell’ego. Quando raggiunge l’orgasmo, allunga il dorso dei piedi e sono così inarcati che il suo pollice tocca terra anche senza alzare il tallone. Sembra che abbia paura di volare e che abbia dovuto moltiplicare i suoi punti di appoggio. Lo trovo divertente e sorrido.
Voglio dire, sorrido. Come se ci fosse qualche speranza per poter continuare a vivere le nostre vite spensieratamente. Sorrido.
«Devo andare in macchina a prendere le mie cose» mi dice dopo un po’. «Hai fatto spazio nell’armadio?» Se va in modo sbagliato e non riesco a sopportare la pressione e finisco per ucciderla, allora rimpiangerò questa decisione. Mi pentirò di averla fermata dal tagliarsi a pezzi. Ma è troppo tardi per tirarsi indietro. «Ho svuotato i cassetti in basso» le rispondo.
Si alza, i suoi piedi sono accanto alle mie orecchie. Giro la testa e bacio la sua caviglia, il dorso del suo piede e le sue dita. «Basta! Mi fai il solletico» si lamenta. Ma mi piacciono i suoi piedi. Intatti, incolumi, mi rendono orgoglioso. Li ho salvati da un’imminente barbarie, ora sono miei.