Il reclamo della foresta

L’usignolo volava tranquillo, come previsto dalla sua natura. Non sappiamo che pensieri avesse, né quali emozioni provasse. Potremmo supporre che traesse un certo piacere da cibo, riposo e stagionali accoppiamenti. Certamente, colpito dal proiettile, deve aver provato dolore.
Ben protetto, lontano dalla mente del ragazzo con la fionda, giaceva un coefficiente esatto della crudeltà necessaria a colpire un usignolo. Casualmente, l’istinto non ha rispetto dei coefficienti. Certamente anche il giovanotto provò dolore, quando venne colpito dal proiettile lanciato da un compagno. Il vivace bersaglio, anche lui anacronisticamente munito di fionda, anziché complimentarsi per la mira pensò bene di coinvolgere l’amico in un rito antico fatto di sudore, dolore e supremazia.

Era un adolescente: il suo corpo aveva familiarità con fango, lividi e sudore, ed era cintura nera di cadute. La pelle copriva a stento le lunghe ossa, ed era intarsiata da un prezioso intrico di cicatrici e brufoli. Qualche pelo più nero degli altri gli spuntava dal mento, e una volta aveva fatto fumare un rospo.
Per quanto fosse esperto di prese al collo, sgambetti e torsioni, in presenza delle ragazze manifestava un’imbarazzante tendenza al borbottio in disparte. Diventava improvvisamente un luminare dei cerchi nella polvere, disegnati con la punta delle scarpe. Con tatto, i coetanei lo schernivano, raccontandogli in cambio le proprie rocambolesche conquiste.
Un giorno, mentre passeggiavano scalciando e sorridendo, gli amici lo condussero nei pressi di una stamberga e gli chiesero se avesse del denaro. Lo informarono che non potevano più tollerare, per ragioni di prestigio, il peso della sua verginità. Espressioni serie e lineamenti duri gli dissero che nella casa viveva una donna, una di quelle.
Gli imposero di decidere, alla svelta, e gli comunicarono che, se fosse diventato un uomo, avrebbe potuto raggiungerli allo spaccio.
Lo lasciarono lì, scommettendo ad alta voce che non lo avrebbero mai più rivisto.
Lui attese che fossero lontani, poi si avvicinò al tugurio e percosse il battente malandato della veranda, con le nocche. Passato qualche attimo sentì dei passi avvicinarsi, un respiro pesante attendere di là dalla porta e poi il silenzio.
Bussò di nuovo, con le stesse nocche, e intimò con voce grossa di aprire la maledetta porta.
Il respiro pesante riapparve, seguito dal cigolio della porta che si apriva. Apparve una donna brutta, grassa e vecchia. Indossava una vestaglia succinta e un alito importante. Lo squadrò dall’alto in basso, a lungo, prima di chiedergli se avesse idea di come nascono i bambini.
Inebetito dalla visione, augurandosi che la risposta implicasse partenogenesi e gemmazione, lui le mostrò i suoi soldi.
La donna si voltò e ciabattò verso l’interno.
Il ragazzo entrò e chiuse la porta con delicatezza, poi la seguì. I passi pesanti della matrona lo condussero in una stanza spoglia, occupata da un letto e una tinozza. La guardò sedersi faticosamente sul bordo del letto, deporre il sorriso in un bicchiere, infine sdraiarsi, la vestaglia sollevata lungo le grosse cosce.
Sudando, si avvicinò al letto e la osservò. Cercando di pensare alla figlia del droghiere, si spogliò maldestramente, fino a rimanere nudo e tremante. Lei guardava il soffitto. Lentamente, lui si avvicinò all’altro lato del letto e si distese. Gli girava la testa e sentì il pene ritrarsi, pudico traditore, in risposta alla stretta delicata che lei gli impose. Dopo qualche inutile tentativo di rianimare il giovane volatile, la donna lasciò perdere e gli chiese se gli andava di fare quattro chiacchiere, per sciogliere il ghiaccio. Lui riuscì a rantolare un , accompagnato dal suono liquido e lascivo della dentiera che rientrava in sede. Gli raccontò di quando era giovane e desiderata. Gli narrò degli uomini che si azzuffavano per dimenarsi tra le sue gambe. Gli descrisse la casa che aveva comprato e il tornado che gliel’aveva spazzata via. Gli mostrò i suoi sogni infranti. Infine tossì, e restarono in silenzio. Lui si voltò a guardarla, proprio mentre una lacrima le solcava il viso. Allungò una mano e, con la punta dell’indice, gliela asciugò. Poi riuscì ad articolare delle scuse e si mosse per alzarsi dal letto. Lei lo trattenne con una mano grassoccia sul torace. Affannando si girò a guardarlo e gli diede un bacio in fronte, carezzandogli il petto. Lui era stordito, si sentiva la pelle madida, le orecchie rosse e le membra tremanti, mentre l’eco dei racconti degli amici gli cresceva, assordante, nella mente. Si sentiva un verme, ma non voleva ferire la donna, perché era ancora un bambino e ormai le voleva bene.
Qualche minuto dopo, lei ritirò la mano e si alzò dal letto, dirigendosi in un’altra stanza. Rimasto solo, lui lanciò un’occhiata di rimprovero e gratitudine al pene flaccido, sospirò e si rivestì. Quando impugnò i lacci della seconda scarpa, lei lo chiamò dall’altra stanza: «Ehi, tu!»
Seguendo l’origine del grido, la trovò in piedi presso un tavolo su cui lo aspettavano: un tovagliolo, una fetta di pane e marmellata, un bicchiere di latte. Si sedette e bevve il latte, mangiò, si pulì la bocca e abbracciò la donna.
Andò via, chiudendo con delicatezza la porta, con le lacrime agli occhi e le spalle pesanti, grondanti pensieri.
Si incamminò verso lo spaccio, deciso a raccontare una menzogna. Camminando incrociò, per caso non per caso, lo sguardo della figlia del droghiere, con effetti benefici sulla sua virilità. Munito di quel vessillo, raggiunse gli amici. I ragazzi fecero finta di non vederlo, fino a quando ignorarlo diventò impossibile.
«Secondo me sei andato al fiume, non puzzi come un uomo» gli disse il primo, alzando lo sguardo. Si fissarono negli occhi, e il primo a cedere fu chi aveva posto la domanda.
«Io dico che quando l’hai vista sei fuggito al fiume, preferendo tenerti dei soldi piuttosto che degli amici» gli disse il secondo. Lui mostrò le tasche vuote e lo fissò fino a fargli abbassare lo sguardo.
Il terzo amico si alzò in piedi e lo sfidò con espressione truce. Dopo quella che parve un’eternità, i lineamenti si addolcirono e una mano volò fino a posarsi su una spalla, mentre un sorriso complice accompagnava la domanda: «Pane e marmellata?»

E questa, per sommi capi, è la storia del padrone. Passiamo oltre.

Il bull terrier trottava con il branco. La slitta era trainata da cinque malamute dai nomi aggressivi e un lupo nero, orbo: il vecchio Uriah. Il bull terrier procedeva a fianco del traino, confidando che prima o poi anche lui avrebbe potuto tirare la slitta. La sera, mentre il padrone riposava presso il fuoco, gli altri cani si prendevano gioco di lui. Gli dicevano che sarebbe rimasto un microbo e lo invitavano a battersi. Lui avrebbe potuto stenderli tutti, e loro lo sapevano. Ma sapevano anche che i finimenti della slitta erano concepiti per cani con un garrese più alto. Non è facile spiegare la dipendenza psicologica che lega un cane al suo padrone. Il bull terrier era forte e combattivo, tenace. Ma era anche affettuoso e sensibile. Ogni volta che il padrone armava la muta ignorandolo, lui soffriva. Quando la sera gli altri lo sfidavano, anziché farli a pezzi preferiva restare in disparte, latrando alla luna un dolore senza nome.
Il volto butterato del satellite gli propose una risposta durante una notte inevitabilmente buia e tempestosa, attirando la sua attenzione su un odore lontano, fatto di neve e muschio, che gli altri sembravano non percepire. L’odore resistette al sorgere del sole e, durante il giorno, il bull terrier si chiese come facessero i malamute a tenere il traino sulla pista, a non lanciarsi verso quella traccia lontana e affascinante. Era un’usta lievissima ma persistente. Era quasi impercettibile, ma quando raggiungeva i recettori dell’olfatto vi si aggrappava con ferocia. Il bull terrier si chiedeva costantemente quale ne fosse la sorgente e, più impervia e ostile diventava la pista, più la trovava irresistibile.
Una sera chiese ai colleghi se anche loro la sentissero, ma ottenne solo denti scoperti e ringhi rabbiosi.
Durante la notte, sognò di perdersi nell’unico occhio azzurro del vecchio Uriah e sentirsi dire: «È il reclamo della foresta, scemo, non hai letto Jack London?»

Dopo qualche giorno, presso un rifugio, il bull terrier vide il padrone giocare con i cani. Non gli era mai passato per la testa che quattrocento chili di malamute potessero giocare con tanta leggiadria. Sentì la voce dell’uomo pronunciare nomi diversi dal solito, ma vide che i cani gli rispondevano lo stesso. Osservò la scena da lontano per un po’, poi si allontanò per fare i bisogni e, al suo ritorno, i cani stavano cenando. Il padrone, che per inciso gli dedicava pochissime attenzioni, non si vedeva. Lui si avvicinò al capobranco, fino a fissarlo negli occhi, e gli disse: «Voglio sfidarti. Voglio essere io, il capomuta!»
Le mandibole tacquero all’unisono, tranne quella di Uriah, che si affrettò ad alleggerire gli altri dei pezzi di carne più teneri e succosi. Anche la foresta sembrò ammutolirsi. Il grosso maschio alfa lasciò cadere l’osso che stava spolpando. Con un solo, veloce movimento, avrebbe potuto strappare la giugulare al bull terrier. Invece, lealmente, fece un passo indietro e gli disse: «Va bene».
La muta si dispose in cerchio, ventri a terra. L’unico a restare in disparte fu Uriah, che mormorava tra sé io canto il cane elettrico.
Gli sfidanti si guatarono a lungo, muovendosi lentamente in cerchio, poi il malamute fece un balzo e inchiodò il bull terrier a terra, tenendogli una zampa sul collo.
Il cagnolino ritenne che quello fosse il momento migliore per fare la sua mossa: girò la testa fino a guardare Feroce negli occhi e gli sibilò una parola lieve, un piccolo suono per il bull terrier ma un grande suono per tutta la muta: «Batuffolo!»
I peli dei malamute si rizzarono all’unisono. Orecchie basse e coda tra le gambe, Batuffolo lasciò andare il suo sfidante e indietreggiò. «Tu… non è possibile… come?»
Il giovane si alzò, scuotendosi via la neve dal pelo. Con fare altezzoso, balzò sulla schiena del capomuta e gli morse, delicatamente, la collottola. Poi saltò giù e si allontanò a testa alta, fermandosi solo al limitare della foresta. Senza girarsi disse: «Vi ho visti giocare. Tutti: Batuffolo, Gisello, Bambagia, Finocchietto e Setoso».

Avanzò circospetto nel fitto intrico di vegetazione, cercando di visualizzare la direzione da cui l’odore proveniva. Annusava una roccia, un muschio, un albero, poi faceva qualche passo e ricominciava. Quando però attraverso le cime degli alberi incontrò lo sguardo lascivo della luna lasciò perdere, e corse a perdifiato. Proseguì fino all’alba, quando esausto si trovò in cima a uno sperone di roccia presso una cascata. Osservò brevemente i dintorni, fece i bisogni, scavò un po’ e si raggomitolò a dormire. A sera, un insistente languore salì dallo stomaco fino al cervello, distraendolo. Volteggiò senza meta cercando un coniglio, ma la traccia portata dal vento non smetteva di insinuarsi tra le sue narici così, prima ancora di accorgersene, rinunciò al cibo e riprese la corsa.
La questione richiese qualche giorno. Un pomeriggio, prima del calare del sole, vide in lontananza una luce. Il cuoricino gli si gonfiò d’orgoglio. L’odore ormai era netto e chiaramente percepibile. Decise che avrebbe raggiunto il suo obiettivo quella notte, a costo di rimetterci la pelle.
Si lanciò in una corsa sfrenata, fino a quando le sue zampe non incontrarono una superficie con cui non aveva familiarità. Si fermò, ascoltando il ticchettio delle unghie sull’asfalto. Poi guardò la grossa emme illuminata che sormontava l’edificio. Senza porsi domande aggirò la costruzione e, quando la vide, la riconobbe. La fonte dell’odore. Lei lo guardò di rimando. «Beh» gli disse. «Suppongo che mi dovrò accontentare».

Con calma, il piccolo bull terrier tornò al rifugio, solo per trovarlo abbandonato. Non sapendo che altro fare, cercò di raggiungere la muta. Passò del tempo e, se questa parte vi sembra eccessivamente breve, rileggetevi Zanna Bianca. Quando incrociò lo sguardo del padrone le orecchie gli si appiattirono al capo. Fu catturato da grosse mani tremanti, mentre una voce cupa gli chiedeva cosa gli passasse per la testa, insultava i suoi avi, ringraziava il cielo del suo ritorno. Fu rimesso a terra, ricevette un buffetto sulla testa e un pezzo di carne.
La mattina dopo, i cani furono svegliati da un rumore basso e sputacchiante, lontano. Il padrone uscì dalla tenda e si guardò intorno, in mutande. Poi, causa principio di ipotermia, si rivestì e stava sistemando la muta, quando un uomo armato di fucile si presentò all’accampamento.
«Ehi, amico, hanno inventato le auto, sai? Mi sono fatto il culo, per arrivare quassù, che ti prendesse un colpo.»
«Già, capisco. Vabbè, e chi cazzo sei?»
«Chi sono? Chiedilo al microbo, chi sono. Ha deflorato la mia povera Shelly, il piccolo stronzo.»
«Shelly?»
«Sì, cazzo! Shelly, la mia splendida Terranova da riproduzione!»
Il padrone si illuminò.
«Una Terranova?» Prese in braccio il piccolo bull terrier e lo guardò con ammirazione, continuando a ripetere: «una Terranova? Una Terranova! Ha! Terranova…»
«Io non ci trovo nulla di divertente, amico. Adesso come minimo me lo fai ammazzare, quel piccolo bastardo.»
Il padrone smise di sorridere e posò il piccolo eroe a terra, scavalcandolo subito dopo per proteggerlo. La muta, sensibile alla situazione, ringhiò all’unisono, mettendo a disagio l’intruso. Il padrone approfittò della distrazione per strappargli il fucile, armare il cane e puntargli la canna al petto.
«Li sai schivare, i pallettoni?»
Lo sconosciuto si guardò intorno, valutò brevemente la situazione, iniziò a indietreggiare, lentamente. Il padrone lo seguì fino al limitare degli alberi, tenendolo sotto tiro fino a quando non sparì nel folto degli alberi. Poco dopo si sentì il singhiozzo del motore che andava in moto.
Il padrone nascose il fucile nella tenda e riprese in braccio il piccolo bull terrier, scoccandogli un bacio sul musetto. Lui non ricordava di aver mai scodinzolato tanto. Anziché ripartire, il padrone passò tutto il giorno a lavorare sulla slitta, ricordandosi a intervalli regolari di controllare che il padrone di Shelly non avesse trovato un bazooka.

Il mattino successivo, dopo aver allestito la muta, il padrone chiamò il bull terrier. Dalle tasche estrasse dei finimenti nuovi che agganciò ai preesistenti. Il branco scrutò con rispetto il nuovo capo e, mentre la slitta tagliava in due l’Alaska, Uriah disse che l’aveva conosciuta, una volta, una Terranova.

Gli altri si limitarono a correre, senza rancore.