In principio fu la pubblicità. La trovavi su Topolino e sembrava promettere grandi cose, poi chiedevi informazioni ai genitori (mia madre, ché mio padre su certe cose era deludente) e ti sentivi rispondere che non sapeva nemmeno che cosa fosse. Poi, dopo un certo calibrato numero di domande ripetute ossessivamente in una cantilena, veniva fuori che era un gioco “difficile”. “Per bambini più grandi”. Ah beh, certo. I bambini più grandi. Quell’astratta entità che veniva sempre raffigurata intenta a fare tutte le cose fighe che volevi fare tu. Altra raffica, un po’ meno calibrata, di domande ripetute ossessivamente in una cantilena e veniva fuori la verità: “Costa troppo!”. Evidentemenre i bambini più grandi, oltre a essere più grandi erano anche più ricchi. Ora non riesco nemmeno a immaginare come facesse mia madre a sapere che il Subbuteo era un gioco effettivamente molto caro per gli standard dell’epoca, ma di certo lo sapeva. Feci presto a mettermi il cuore in pace: ero abituato a NON possedere gli status symbol che tutti gli altri sembravano avere. Tipo Big Jim. Nel 1974 se avevi sette anni e NON avevi un Big Jim, eri un perdente. Io NON avevo Big Jim. Io avevo – pensate un po’ – “L’amico Jackson”. Me lo trovai tra i regali di un Natale – avevo chiesto ovviamente Big Jim e altrettanto ovviamente sotto l’albero c’era l’imitazione tarocca e tamarra di Big Jim. Un bambolotto simil-Big Jim ma colored. Cioè afroamericano. O, come si diceva allora, “negro”.
Scorrevano in piena, quegli anni settanta, e un po’ di politically correct cominciava a colare dall’America verso Canelli addirittura. Ma non credo che mia madre avesse scelto il buon Jackson per farmi apprezzare le persone con un colore della pelle diverso dalla mia. Era perché costava meno.
Dunque il Subbuteo non arrivò subito. Subito arrivò il Super Gioca Goal. Una copia orribile del Subbuteo, col pallone semisferico, il campo di pvc, i giocatori di plastica rigida e senza bilanciamento. Una schifezza durata l’arco di una stagione e mai più replicata. Il Super Gioca Goal costava pochissimo.
Estate del 1978. Mondiali di calcio in Argentina. Erano i primi mondiali che mi godevo da personcina pensante, mi hanno influenzato parecchio negli anni a venire e coincisero con l’apparizione del Subbuteo, nel retro del negozio di pasticceria di Chicco. Chicco (Maurizio, v. nota sul Torrone Faccio) era sempre all’avanguardia. Da bambino era già vestito griffato e andava a sciare tutte le domeniche. Noialtri eravamo molto più basici. E anche il Subbuteo era giusto che lo lanciasse lui.
Fu subito chiaro che si trattava di un’attività degna della massima attenzione. Innanzitutto le squadre, i giocatori. Bellissimi. Le maglie dipinte con cura, i polsini, i calzettoni, le strisce sui calzoncini e sulle maniche della maglie. E poi il campo di panno verde come quello del biliardo. Bellissimo, le strisce bianche realistiche, le porte con le reti blu e rosse. Bellissime. I palloni piccoli arancioni o marroni o bianchi, ma meglio arancioni. Bellissimi. Quell’estate giocammo i mondiali e ci alternammo in tanti: Chicco (quattordici anni) , Pierluigi (dodici), Fulvio (otto), io (undici), Stefano (tredici), Gianni (dodici), Arnaldo (tredici) e chissà quanti altri. Chicco aveva sei o sette squadre. Ricordo l’Argentina con gli omini colorati da negri come l’amico Jackson. Poi aveva il Brasile, la Germania, l’Italia e – inopinatamente – la Fiorentina. Oltre alla sua squadra del cuore, la Juve. Per un anno Chicco fu l’unico ad avere il campo ma l’anno dopo ce l’avevamo anche Stefano, Fulvio e io.
Un giorno di giugno, aspettai mio padre in casa in piena agitazione. Lui avrebbe smesso di lavorare a mezzogiorno e mi avrebbe accompagnato da Fiorina a prendere la scatola dell’agognato Subbuteo. Quando lo portammo su a Cassinasco dovetti aspettare con calma altri due o tre giorni prima che mio padre trovasse un asse adatto ad attaccarci il campo sopra e poi facemmo il lavoro più difficile: inchiodarlo giusto dritto senza righe storte. Arrivarono le squadre: con la scatola c’erano i “rossi” e i “blu”, le due squadre senza nome usate però per fare l’Italia, la Francia, la Jugoslavia e la Scozia (i blu) e URSS, Cecoslovacchia, Ungheria, Svizzera e poco altro (i rossi). Io comprai subito l’Olanda e il Saint Etienne (maglia verde pantaloncini bianchi) all’epoca il club di un certo quasi sconosciuto Michel Platini. Poi arrivarono l’Inter, il Toro, il Celtic Glasgow, il Nantes (maglia gialla pantaloni verdi), la Germania Ovest, il Real Madrid (bellissimo, tutto bianco, anche la piattaforma, uno spettacolo). A un certo punto cominciammo a modificare le squadre e a migliorarle. Certe versioni non avevano le strisce sulle maniche, tipo la Spagna di Chicco. Allora lui prese lo smalto da modellismo e con uno stuzzicadenti tracciò le strisce gialle sulla maglia rossa della Spagna. Ma quella Spagna originariamente era la Roma, per cui i pantaloncini bianchi furono colorati di blu e la Spagna di Chicco era bellissima da vedere sul campo verde. Quindi dopo Chicco tutti cominciammo a migliorare le nostre squadre. Poi attaccammo i numerini dietro le schiene, lavoro infernale ma utilissimo per la classifica dei marcatori e la telecronaca.
La cosa prese ritmi vertiginosi e si giocava a tempo pieno, anche d’inverno. Le partite più memorabili furono una Coppa Campioni giocata a casa di Bonino lo zio di Chicco. Era una stanza piuttosto grande ma anche buia e l’atmosfera era speciale, chissà perché. Forse perché si era intorno a Natale. I tornei erano complessi e lunghi. Per ogni squadra avevamo inventato i nomi dei giocatori. Dopo anni, quei nomi corrispondevano a giocatori per noi reali e c’erano i campioni e quelli meno forti, esattamente come se fossero veri. Negli anni io, Stefano, Fulvio e Chicco abbiamo creato un universo parallelo di giocatori dai nomi improbabili che facevamo vivere sul tavolo verde del Subbuteo. E che vita avevano! Il fuoriclasse era un certo Dieter Kadeltz della Germania Ovest, il numero dieci. Ma nella Germania il portiere di chiamava Mauthausen, oviamente.
Il bello erano le telecronache di Stefano, molto simili a quelle vere della Rai dell’epoca. Tutti facevamo la telecronaca quando facevamo gli arbitri e i due giocatori dovevano invece fare il pubblico (emettendo quel suono sibilato dell’urlo senza voce che si usa per imitare la folla degli stadi). Due tempi di venti minuti. I fuorigioco, le punizioni, i pallonetti, le triangolazioni, le sostituzioni, le interviste nell’intervallo e a fine gara. E andammo avanti anche in età avanzata a fare questa cosa dei tornei coi nomi inventati, credo fino intorno alla metà degli anni ottanta. A vedere cose di adesso come il Magic Campionato o la Playstation mi viene in mente che noi avevamo cercato di fare una cosa del genere senza però avere accesso a tutte le rose delle squadre straniere e pertanto inventandoci tutto. Perfino i nomi degli arbitri.
D’inverno Fulvio veniva a Canelli due volte alla settimana per giocare a casa mia. Facevamo soprattutto amichevoli tra nazionali. La preferita di tutti era la Germania Ovest (con i suoi fuoriclasse Kadeltz, Welfitz, Bosch e Hovermann), seguita dall’Olanda (con il grande Dick Jonden e poi Van Erischbak, Cekers e Hoobaard). Godeva di scarsissimo amore l’Italia ( i nomi italiani inventati facevano davvero schifo: Avalda Torolli Girlini eccetera) e così anche l’Inghilterra e le squadre sudamericane. La Francia piaceva per via di un centravanti potente e preciso chiamato Peuti. A me piaceva giocare con l’Unione Sovietica (Devenkov e Monjatin) e con la Cecoslovacchia (l’imbattibile portiere Darky e il potente centravanti Janecka) a Stefano piaceva l’Ungheria (Filloy, Marani, il portierone Szepes). Una volta facemmo la coppa del Kenia. I nomi erano tutte parole piemontesi oppure cose finto-africane come Kotojusamba o CocoBabda. Alla finale di una Coppa Italia alla casa vecchia di Stefano, Chicco – con gli occhiali di Stefano sul naso – faceva l’imitazione di Andreotti che premiava il capitano della squadra vincitrice.
I più forti a giocare erano Gianni Speziale e Chicco ma poi diventammo tutti più o meno bravi uguali. Stefano era capace di exploit occasionali ma fondamentalmente era quello che le prendeva. Fulvio era tignosissimo, giocava chiuso in difesa ed era preciso e insidioso. Io giocavo in modo spregiudicato ed ero temibile sulle punizioni. Se mi arrivava una punizione di prima, era facile che segnassi.
Una bellissima finale di Coppa Tedesca (Bayern – Schalke 04) la giocammo in notturna nel giardino di casa mia a Cassinasco, con la lampadina che penzolava da un albero di nocciolo e le squadre che risaltavano nella luce della notte. Vinse 3-2 il Bayern.
per chi non è mai stato a cassinasco, è obbligatorio andare a cassinasco!