Tutte le sere, quando torno dal lavoro e mi metto a tavola per cenare, squilla il telefono di casa. Lascio la forchetta, mi allargo il colletto della camicia, dico «Pronto?» ed è mia madre. Due anni fa lei ha piantato mio padre. Da allora mi chiama sempre mentre mangiamo. Mi siedo a tavola col cordless accanto alla forchetta, pronto a ricevere la chiamata. Quando riaggancio, mia moglie e mio figlio sono già alla Tv, in salotto. Riscaldo il piatto al microonde, accendo la Tv della cucina, e finalmente mi rilasso.
Per un lungo periodo l’argomento delle conversazioni con mia madre è stato il disagio insopportabile creato da un locale notturno che avevano aperto vicino a casa sua.
«Venerdì Ernesto, venerdì uno di questi trogloditi stava facendo i bisogni sul muro del palazzo. Sono andata in veranda, ho preso un secchio d’acqua e gliel’ho rovesciato in testa». Oppure: «Sai cosa hanno scritto, Ernesto, queste scimmie della jungla? Hanno scritto papa sbirro. Se me lo raccontassero non ci crederei». Mi aggiornava sulle scritte che comparivano sui muri lungo la strada. E mentre mia madre parlava mi veniva in mente la scritta che vedo dalla finestra del mio ufficio: elena sei la mia papera. «è una situazione insostenibile. Ma ti dico una cosa, Ernesto: io non mi arrendo». Mia madre parlava dell’inefficienza della giunta comunale, dei giornali a cui aveva scritto, dei vicini che continuavano a chiamarla «Signora Menecruccio» e lei non voleva perché quello è il cognome di mio padre, ma io non potevo concentrarmi davvero sulle sue parole, non potevo concentrarmi su nulla a parte il fatto che Elena era la mia papera.
Poi un’ordinanza comunale ha fatto chiudere quel locale. Mia madre continuava a parlarne: «Ti ricordi, Ernesto, del chiasso che facevano quella capre ubriache? È un’altra vita senza quelle bestie». Col passare delle settimane però le sue telefonate si riempivano di silenzi, di sospiri, di monosillabi. C’erano sempre state delle domande a cui potevo ricorrere quando sentivo che aveva voglia di parlare anche se non c’era niente di nuovo da raccontare. Le chiedevo che cosa era successo la tal volta a quella sua amica. O come era andato quel viaggio. Adesso invece se provavo a ricorrere a quello stratagemma, lei denunciava il nostro patto segreto: – Suvvia, Ernesto, te l’ho raccontato cento volte.
Stavamo al telefono, in silenzio.
– Mamma, va tutto bene? – chiedevo io.
– Eh? Sì, sì, – rispondeva.
– E come si sta ora, senza quei cavernicoli?
– Quali cavernicoli?
– Senza quei trogloditi, dico.
– Ah. Eh, sì sì. Ora si sta meglio.
– E i muri? Ci sono ancora tutte quelle scritte?
– Macché. I muri sono grigi. È tutto grigio in questa città.
Ero stato invitato a un convegno nella città in cui sono nato. Sono un informatore farmaceutico, lavoro per una nota azienda. Le dissi che per l’occasione sarei andato a trovarla.
Anche mio padre è un informatore farmaceutico. Quando ha compiuto i sessanta gli hanno inviato la tessera per gli sconti e lui l’ha messa nel tritacarte. Poco dopo si venne a sapere che aveva una relazione con una collega più giovane.
Fu mia madre a scoprirlo. Andò così: mia madre aveva cominciato a fumare. Non aveva mai toccato una sigaretta in vita sua, e poi, vicina alla pensione, prese a fumare di nascosto. Lasciava la finestra di camera socchiusa e si accendeva una sigaretta. Poi faceva arieggiare, e andava a buttare il mozzicone nel cassonetto pubblico, per non lasciare tracce. Me la immagino fumare come una ragazzina fuma le sue prime sigarette. Me la immagino tenere la sigaretta in modo goffo, e arrossire nel portarla alla bocca. Me la immagino, ma non l’ho mai vista, nessuno l’ha mai vista fumare. O quasi.
Sentite bene che cosa successe: un giorno lei chiama mio padre e gli dice che avrebbe fatto tardi al lavoro, che non poteva tornare a casa per preparare il pranzo. Lui le dice va bene, mangio un panino fuori. Mia madre era impiegata in una ditta di import-export. In ufficio dice che ha l’emicrania, e si prende mezza giornata. Torna a casa: il suo piano era di starsene tutto il pomeriggio a fumare sigarette.
È stata lei a raccontarmelo, al telefono: «Stai a sentire, Ernesto: non ci ho mai messo così poco a tornare a casa dal lavoro. Faccio i gradini due alla volta, come fai te. Arrivo davanti alla porta di casa ma mi agitava l’idea che tuo padre ci avesse ripensato e fosse tornato per pranzo. Mi ascolti? Infilo la chiave nella toppa. Tenevo gli occhi chiusi, sperando che la serratura avesse le mandate. Ernesto, ti rendi conto che stavo tremando? Giro piano, trattenendo il respiro. Sento che la porta è chiusa con le mandate, e a quel punto la apro con un foga che…» Fece una pausa per riprendere fiato. Cosa potevo dire?
«E sai cosa? Con l’altra mano cercavo di tirare fuori una sigaretta dal pacchetto che avevo in tasca. Capisci? Richiudo la porta e già ho la sigaretta in bocca. La accendo senza aspettare di essere alla finestra. Vado in camera. Era buio, le persiane erano chiuse come le avevo lasciate. Le apro un po’, per far entrare la luce e uscire il fumo. Poi vado a sistemare le mie cose sul cassettone, sai, la borsa, il portafogli, il cellulare… Solo a quel punto mi rendo conto che qualcosa siul letto si stava muovendo. Su quel letto io tuo padre ci dormivamo prima che tu nascessi, e ora lui era lì con quella sgualdrina. Mi ascolti? Ho gridato, e la sigaretta mi è caduta sul tappeto».
Sono uscito dalla stazione centrale, mio padre era in piedi, vicino alla macchina, davanti al McDonald’s. Mia madre è convinta che neanch’io lo veda più. Aveva i capelli grigi e gli occhiali da sole, anche se erano già le sei e mezza di sera.
– Come stai, papà.
Lui ha detto: – Ernesto.
Mi ha preso dalla mano la borsa da sport che avevo con me.
– Tutti bene a casa?
– Tutti bene, grazie.
Ha aperto il portabagagli per metterci dentro la mia borsa. – Entra pure, guido io, – ha detto.
Mi sono seduto nel posto del passeggero. Ho tirato un lungo respiro. Non mi ha mai lasciato guidare. Dice che non si fida, che le nuove generazioni non hanno idea di come si guidi una macchina perché l’esame della patente di oggi è una buffonata. Lo stesso discorso vale per l’esame di maturità, i concorsi pubblici, trovare lavoro, trovare delle ragazze che ci stanno. Quando mio padre aveva la mia età tutto era più difficile.
– E la mamma, come sta? – mi ha chiesto.
– Benone –. Poi ho guardato il cielo: – Le giornate si allungano.
Quando ero piccolo la sera sentivo il rumore delle chiavi che mio padre cercava di infilare nella serratura. Poi la porta si apriva e lui entrava di schiena. Si girava e diceva: «Toh, guarda chi c’è!» Mi mostrava la mano chiusa a pugno e diceva: «Indovina chi ti ha portato un regalo?»
Allora io mi avvicinavo, e mi mostrava un portachiavi, una piccola pila, a volte una penna, una gomma da cancellare, un righello, uno spazzolino da denti. Erano i gadget dell’azienda farmaceutica per cui lavorava. Su tutti c’era stampato sopra il nome dell’azienda. Ricordo che in un tema delle elementari scrissi che da grande volevo fare lo stesso lavoro del mio papà.
L’autoradio era sintonizzata su una stazione di musica dance. – Lo so che ho sbagliato, Ernesto. Ma che ti devo dire, la verità è che non mi sono mai sentito in forma come adesso.
Ho girato la manopola dell’autoradio, fermandomi al primo notiziario.
Ho guardato fuori dal finestrino, poi l’orologio sul cruscotto. Il notiziario parlava di un cantante messicano che aveva perso un dente mentre cantava in diretta tv. Mio padre si è fermato a un semaforo. Era un grande incrocio ed eravamo i primi della fila. Ci trovavamo nella corsia sbagliata, dovevamo girare a sinistra ed eravamo in quella centrale. Mio padre ha messo la freccia a sinistra, ma era impossibile spostarsi. Il nostro semaforo è diventato verde. Lui cercava di far passare chi doveva proseguire dritto, ma non c’era spazio. Dietro ci davano dentro coi clacson. Mio padre si sporgeva in avanti sul volante e guardava in tutte le direzioni. Avevamo bloccato una lunga fila.
Dico: – Papà, vai dritto –. Lui molla le mani dal volante, e senza guardarmi dice: – Ma dobbiamo andare a sinistra, Ernesto! – Il semaforo è diventato di nuovo rosso senza che nessuno fosse riuscito a passare. È scattato il verde per la corsia di sinistra e in qualche modo siamo riusciti a filare via. Qualcuno ha gridato: – Rincoglionito!
Siamo arrivati a destinazione parlando dei risultati calcistici e di politica. Mi ha lasciato in cima alla strada. Ho preso la mia borsa dal portabagagli e ci siamo stretti la mano. Ho aspettato che sparisse dietro la curva, e mi sono incamminato verso la mia vecchia casa.
Avevo con me una copia delle chiavi. Sono entrato e ho appoggiato la borsa in terra. Mia madre doveva essere in cucina. Mi sono stiracchiato, poi l’ho raggiunta.
– Ernesto! – Ha abbandonato il mestolo e mi ha abbracciato in silenzio. Poi mi ha guardato negli occhi e mi ha chiesto: – Allora, quand’è che torni a trovarci?
– Non potresti aspettare domani a chiedermelo? Sono appena arrivato!
In cucina c’era anche Ottavio. L’avevo conosciuto l’anno prima. Mia madre ci passava un po’ di tempo insieme. Si erano incontrati a un corso di salsa. La prima volta che avevano provato a ballare insieme, Ottavio le aveva rifilato accidentalmente una gomitata in testa facendola svenire. Quando la sentii al telefono, quella sera, non ebbe parole dolci per lui. Ottavio però cominciò ad andare a trovarla, sempre con dei fiori, dei dolci, dei piccoli regali. Avevano preso a frequentarsi. Ottavio era stato un professore alle superiori, non ricordo di quale materia.
Ho fatto una doccia e ci siamo messi a tavola. Abbiamo mangiato in cucina.
Durante la cena mia madre si alzava di continuo, per riempire la brocca dell’acqua, spegnere un fornello, prendere i tovaglioli. Non si era tolta il grembiule. Io giocavo con le briciole del pane.
Notai che Ottavio non aveva più la barba.
– Stai bene senza barba, – dissi, anche se non era vero.
Lui aveva alzato lo sguardo per sorridermi, ma fu mia madre a prender parola: – Ma non lo vedi che sembra un coniglio?! Non si può guardare!
Si riferiva ai lunghi incisivi di Ottavio, che senza barba si notavano di più. Lui non disse niente, fissava la minestra e mangiava a cucchiate regolari senza alzare gli occhi dalla scodella. È stato allora che mia madre ha preso una carota dal frigo, una di quelle carote come appena colte, con la coda e ancora sporche di terra, e gliel’ha sventolata sotto al naso, ridendo e gridando a ritmo: «Coniglio! Coniglio! Coniglio!» Impassibile, Ottavio teneva il cucchiaio ben stretto, la punta sommersa dal brodo. A quel punto mi è squillato il cellulare. Era mia moglie: a nostro figlio gli era andato dello Schifidor in un occhio.
– E che cazzo è lo Schifidor?! – ho gridato alzandomi di scatto e uscendo dalla cucina. Lo avevano ricoverato al reparto di oftalmologia. Guardai in cucina: mia madre stava battendo la carota in testa a Ottavio. Sarei ripartito col primo treno, alle 5,30 di mattina. Mi affacciai in cucina e dissi che andavo a dormire, che ero stanco, e che ci saremmo visti l’indomani.
– Ernesto, – disse mia madre con la carota in mano, – va tutto bene?
– Tutto bene, mamma. Sono stanco per il viaggio.
Mio figlio era ricoverato all’ospedale. Non potevo dormire. Vicino alla finestra della mia vecchia camera c’era un posacenere. E mentre me lo rigiravo tra le mani, e pensavo a mia madre che aveva iniziato a fumare a due passi dalla pensione, l’ho vista uscire con uno scialle intorno al collo. Aveva ancora il grembiule da cucina. Ha attraversato la strada. Si è guardata intorno, nel buio della notte. Poi da una tasca del grembiule ha tirato fuori qualcosa, si è coperta il viso con lo scialle, e ha iniziato a scrivere sul muro con una bomboletta di vernice rossa, e su quel muro grigio, davanti alla finestra della mia vecchia camera mia madre ha scritto: fai attenzione perché la natura della tua oppressione è l’estetica della mia anarchia.
[Questo è il racconto con cui abbiamo presentato Tommaso Rooms alle Prove d’Autore di Esor-dire 2010. Il racconto è già apparso nei Jukebooks di Quintadicopertina.]
non ce nè x nessuno…. grandioso
una cosa molto bella.
davvero, un bel racconto
Molto bello. Complimenti.
Bello!