ore 7 e 40
Solo adesso mi rendo conto di quanto sia piccolo il mio bagno. Lo specchio è minuscolo, nascosto da una lampada ingombrante e dalle foto minimaliste scattate da Dario. Anche in piedi sullo sgabellino, riesco a vedere solo pezzi di me. Fotogrammi sparsi di un corpo di cui avevo perso memoria. Spalle un po’ cadenti e rotoli all’altezza della vita. In questo equilibrio precario la faccia non riesco proprio a vederla, e forse e meglio così. Mi dico che la colpa è tutta di questa tutina bianca, che mi fascia tutta e mi fa sembrare un pupazzo di neve. Perché l’ho presa proprio bianca?
Bussano alla porta. Mi infilo la gonna e gli stivali che mi danno almeno dieci centimetri in più. Metto il resto nel borsone ed esco fuori. Dario è in maglietta e boxer, ancora mezzo addormentato, ma mi abbraccia e mi bacia: «Auguri, amore». Buon quarantesimo compleanno. Sembra che non se ne accorga nemmeno degli anni che passano, ha lo stesso sguardo di sempre, non è uno specchio lui. Accenno un sorriso e lo lascio lì in piedi. Stamattina ho voglia di arrivare subito in ufficio, di scomparire dietro la mia scrivania.
Vorrei che oggi tutti si dimenticassero di me. Muovermi tra le persone senza essere vista. Poter rinunciare all’azione e seguire il flusso contorto dei miei pensieri, senza il pericolo che qualcuno venga a troncarlo sul più bello.
Odio trovarmi al centro dell’attenzione. Anche quando ero piccola, attendevo con disagio il giorno del mio compleanno. Avrei preferito svegliarmi direttamente il mattino successivo, senza dover sopportare le telefonate degli amici di mia madre e mostrare emozione per le sue feste a sorpresa. Pensavo che sarebbe bastato saltare un giorno per tornare ad essere una persona qualunque, a proprio agio nel suo anonimato.
Per strada trovo un po’ di tregua. provo quel senso di ansia che mi prende ogni mattina, appena metto il naso fuori al portone. Ma almeno nessuno si accorge di me, nessuno mi conosce. In questi anni ho fatto di tutto per proteggere il mio anonimato e ho ottenuto discreti risultati. Potrei anche scrivere un manuale sull’argomento. L’importante – in questo campo – è non cercare punti di riferimento e non darne agli altri. Nessun giornalaio che conosca le tue riviste preferite, nessuna drogheria di fiducia, cambiare il bar del pranzo ogni giorno. A volte ho l’impressione di essere un agente segreto inviato in terra straniera per una breve missione. Mi muovo senza lasciare tracce. Se qualcuno provasse a cercarmi, dopo il mio passaggio, se chiedesse in giro di me, avrebbe non poche difficoltà. Sfido chiunque a ricordare la mia faccia.
ore 15
Sono le tre del pomeriggio. Pausa pranzo, il momento che preferisco. L’ufficio è vuoto, nessuno che venga a disturbarmi. Almeno 45 minuti di silenzio per il mio solitario al pc. Non ho mangiato, ma ho già finito il mio pacchetto di camel lights. Non capisco perché mi ostini a comprare pacchetti da dieci se poi li finisco a metà giornata. Dovrei ricominciare a comprare quello da venti, ha ragione Dario. Lui ha sempre ragione.
Mi affaccio alla finestra e resto per qualche secondo a guardare lo struscio degli impiegati: coppie di donne rassegnate al nubilato, cinquantenni soprappeso che rincorrono affannati giovani leve in tacchi alti e tailleur.
Un’altra ora e qui ho finito. Un’altra ora senza sigarette posso resistere.
Frugo nella borsa alla ricerca di un pacchetto dimenticato. Trovo solo la brochure spiegazzata. All’interno c’è la foto di un saggio di bambine e quella di una ballerina professionista sul palco di un grande teatro, ma il testo non lascia dubbi: “Corsi di danza per tutte le età”. La rigiro tra le mani e ricomincio a fami domande. Non è facile iscriversi a un corso di danza a quarant’anni. Forse sono pazza, non mi ricordo nemmeno un passo. Forse ci saranno solo bambine accompagnate dalle loro madri. O forse, peggio, troverò solo ventenni in piena forma, semi-professioniste desiderose di mostrare il proprio corpo fasciato nel tulle.
«Cosa te ne importa di chi trovi, è questo che vuoi, no? Fallo e non te ne pentirai. Hai già fatto danza da piccola, sei portata.» Più penso alle parole di Dario e più mi innervosisco. Cosa ne sa lui della danza? Gliel’ho detto pure, ieri sera, e lui nemmeno si è offeso. È rimasto a guardarmi, ha finto per un po’ di interessarsi al telefilm che passavano in tv e poi ha ripreso a parlare, come se non fosse successo nulla. Parla molto Dario e riesce ad avere una fiducia illimitata nelle cose e nelle persone. Per lui tutto è possibile, basta volerlo, e non smette mai di farlo presente all’interlocutore di turno. E non si offende facilmente. Anche ieri: «Avevo pensato a una cena per domani sera, per festeggiare. Ho già prenotato, ma possiamo rimandare, così vai alla tua prima lezione».
ore 17
Prendo la macchina per andare da mia madre. Devo attraversare tutta la città ma non me ne importa. È solo marzo, ma fa già caldo come in estate. In macchina apro il mio nuovo pacchetto di camel lights da dieci e mi lascio cullare dal ritmo regolare del traffico. Mi sorprendo a scrutare i miei vicini in fila al semaforo. Qualcuno suda e si accanisce col clacson. Una specie in estinzione. La maggior parte di loro sembra trovarsi a suo agio nel proprio abitacolo con i finestrini chiusi ermeticamente e il conforto dell’aria condizionata. Li vedo parlare all’auricolare, come se fossero seduti nel salotto di casa. Nello sguardo non c’è traccia di impazienza, ma la serena allucinazione di chi muove le labbra senza preoccuparsi di avere al fianco qualcuno che lo ascolti.
Ci metto un po’ a trovare le chiavi di casa. Traffico a lungo con la serratura, facendo più rumore di uno scassinatore, ma non viene nessuno ad aprirmi. Alla fine riesco a entrare. Dall’ingresso sento la Coppelia di Delibes che arriva dalla radio gracchiante del soggiorno. La stanza è in penombra, mia madre è seduta in poltrona e non sembra nemmeno accorgersi di me. Anche immersa nella poltrona, mantiene il suo portamento elegante che le ho sempre invidiato. Ci penso ogni volta che a sedermi in una poltrona sono io, stravaccata e con il mento incassato nel petto. Lei ha lo sguardo assente ma il suo corpo è ancora asciutto e muscoloso. Se non fosse per i capelli bianchi raccolti in alto, sembrerebbe la stessa ragazza che balla nelle tante foto ingiallite che riempiono la stanza.
Mi siedo accanto a lei e incominciamo a parlare, come se fossi lì da sempre. Non ho bisogno di argomenti per rompere l’imbarazzo. Le chiedo di raccontarmi la storia della sua vita. Perché è l’unica cosa che lei ricordi bene, da quando si è ammalata di Alzheimer. E perché oggi, per la prima volta, mi va di sentirla.
«Per me il momento più bello è stato quando tuo padre ci ha lasciato» attacca lei, oramai abituata a omettere ogni episodio spiacevole della sua vita passata. «Io ero ancora molto giovane e ho potuto riprendere la mia carriera senza difficoltà. Ballavo bene, lo dicevano tutti, e quando mi trovavo sotto ai riflettori nessuno riusciva a staccarmi gli occhi di dosso. Sul palco ero davvero felice. Lo ero anche quando tornavo a casa, da te, ma non era la stessa cosa. Solo in scena potevo dimenticare tutto il resto. Provavo una gioia vera, profonda, priva di qualsiasi neo. Tu non puoi capire, era una sorta di estasi”, mi dice riprovando la stessa emozione di allora.»
«Perché avevi smesso allora?» le chiedo senza pietà, come se non conoscessi già la risposta.
«Prima erano stati i tuoi nonni a dirmi di smettere. Non volevano che ballassi. Non si limitarono a dirmelo, me lo proibirono e basta. Allora funzionava così. Per questo ho lasciato Londra. A Roma ho dovuto cambiare vita. All’inizio non sono riuscita a trovare nessun ingaggio e per vivere ho iniziato a lavorare in qualche locale notturno. È lì che ho conosciuto tuo padre. Non eravamo innamorati, ma si prendeva cura di me. Usavamo una lingua nuova, un misto di inglese e romano che ci permetteva di comunicare l’indispensabile. E poi lui diceva di volermi sposare, diceva una volta insieme avrei potuto riprendere a ballare in un vero teatro. Poi ha cambiato idea. O forse ho capito male io.
«Per me è stata una fortuna. Quando mi ha lasciato, sono stata di nuovo libera. Tu eri nata da poco, ma ce la siamo cavata. All’inizio venivi con me alle prove, poi ho iniziato a lasciarti a casa da sola. Sei cresciuta subito. E io ero di nuovo libera! Guarda, lì ci sono ancora i giornali che parlano dei miei spettacoli. Leggi le critiche, non fanno altro che parlare di me.»
«Lo sai che sto pensando di ricominciare anch’io con la danza?» dico, interrompendo un monologo immutabile.
«Tu? Ma quanti anni hai?»
ore 19
Di nuovo in macchina. L’afa di stamattina ha lasciato spazio a una tenue pioggerellina. Non c’è nemmeno più il traffico di prima, sembra che siano spariti tutti. Ne approfitto per ignorare qualche semaforo. Non bado alla strada, tanto la conosco a memoria. Accelero e non riesco a soffocare la rabbia. Mi viene da piangere e mi sento una stupida.
Arrivo davanti alla palestra senza nemmeno chiedere indicazioni, non so come ho fatto. Mancano solo dieci minuti alla lezione. Parcheggio davanti all’entrata e resto in macchina a fari spenti. Sotto all’ingresso mal illuminato da un neon non c’è molto movimento. Vedo entrare una ragazza, poi un gruppetto di signore sulla quarantina. Passano altri cinque minuti e ne entrano un altro paio. Poi più niente.
Quando mi avvicino alla palestra sarà passata una mezz’ora dall’inizio della lezione. Dalle grosse vetrate che danno sulla strada posso vedere tutto, senza che nessuno si accorga di me. Dentro ci saranno una decina di persone, non mi prendo la briga di contarle. Una ragazza, la più giovane del gruppo, si muove meglio di tutte. Si vede che non è una principiante. Le altre sono goffe, accennano qualche passo rischiando di cadere, ma sembrano divertirsi. Anche l’insegnante ride con loro.
Controllo l’orologio, sono quasi le dieci. Metto il borsone nel bagagliaio e risalgo in macchina. Sento il mio cellulare che squilla: è Dario. Decido di non rispondere.